In Birmania la repressione armata oggi si è conclusa con un bagno di sangue, il più grave dall’inizio delle proteste: almeno 38 persone sono state uccise in diverse città del Paese, che oggi sono diventate campo di battaglia quotidiana in cui la polizia spara migliaia di manifestanti disarmati che protestavano contro il colpo di stato, nonostante i molteplici appelli della comunità internazionale. Mentre i birmani su Internet chiedono al mondo di aiutarli contro il pugno di ferro del nuovo regime, i militari stanno dimostrando ogni giorno di più che sono pronti ad uccidere giovani innocenti per rimanere al potere.
Gli ufficiali hanno sparato proiettili veri contro Monywa, Mandalay e Myingyan, a volte senza preavviso con gas lacrimogeni e proiettili di gomma. Il drammatico bilancio di oggi, annunciato dall’inviato dell’Onu, arriva dopo un altro weekend sanguinoso, con almeno 18 morti.
La situazione è molto tesa anche a nord di Yangon, nel distretto settentrionale di Okkalapa: dall’area, alla quale le forze di sicurezza hanno rifiutato l’accesso ai media, sono stati trasmessi video di guerra urbana, con barricate di fortuna date alle fiamme dalla polizia e foto di giovani colpiti alla testa.
Con il Paese chiuso ai giornalisti stranieri anche a causa dell’emergenza Covid, di cui ora fa la giunta, i birmani fanno appello al mondo rilanciando messaggi disperati sui social network in cui gli agenti sono ormai “terroristi”, e lo sgomento per la brutalità del il regime cresce sempre di più.
I video dei feriti trascinati dagli agenti di polizia, ancora oggi un video di agenti che picchiano il personale medico fuori da un’ambulanza che trasporta i feriti, alimentano la rabbia. E soprattutto quando una ragazza muore – come una ragazza di 19 anni di Mandalay pugnalata al collo mentre indossa una maglietta con la scritta “Andrà tutto bene” – il duro pugno dei militari diventa sempre più inspiegabile.
Oltre alle morti ci sono stati centinaia di arresti, che hanno portato il totale ad almeno 1.300. Anche i giornalisti sono stati presi di mira, tra cui almeno sei detenuti per reati che vanno dalla diffusione di informazioni false all’incitamento a disobbedire.
A Yangon, è stato riferito che ai posti di blocco gli agenti costringono gli automobilisti a mostrare loro i loro post su Facebook; se vengono trovati messaggi favorevoli alle proteste, scatta un arresto. Sebbene impossibili da verificare, questi dettagli mostrano che tra le forze di sicurezza e la popolazione ora c’è un conflitto tra due idee opposte della Birmania. In questo clima, un compromesso sembra impossibile.
Il generale golpista Min Aung Hlaing è stato finora sordo a qualsiasi chiamata internazionale, sia per fermare le violenze che per liberare i politici detenuti, a cominciare da una Aung San Suu Kyi, tenuta prigioniera con quattro ridicole accuse. Ieri sono caduti nelle orecchie di un sordo un appello ad una “riconciliazione costruttiva” da parte dell’Associazione, generalmente timida nei confronti dei Paesi del Sudest asiatico (Asean), e un’esortazione per una “soluzione pacifica” da parte di Singapore.
Oggi è Papa Francesco ad appellarsi al mondo “affinché le aspirazioni del popolo del Myanmar non siano soffocate dalla violenza”. Finora anche le minacce di sanzioni da parte degli Stati Uniti e dell’Unione europea non hanno avuto successo. E nonostante le morti e le sparatorie quotidiane, la popolazione continua a scendere in piazza.
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