Esportare la democrazia con le armi non è difficile, rischioso, complicato, rischioso: è impossibile, da un punto di vista logico. Ora, poiché non si tratta di logica, ma di storia, ciò che è impossibile diventa “solo” difficile, rischioso, complicato, rischioso. Non una passeggiata di salute, insomma, ma un viaggio molto accidentato. E adesso provo a spiegarmi, dando per scontato il giudizio sulla vicenda afghana (che ha riaperto il dibattito): c’è poco da fare, l’export è stato, almeno finora, un fallimento.
Esportare la democrazia con le armi significa imporre un sistema di regole con la forza militare in un Paese che non conosce queste regole, o meglio: non le riconosce come fonte di legittimità per il potere politico. Il demone della logica, che non dorme mai, allora si chiede: ma la forza militare può supplire al mancato riconoscimento? E soprattutto: è ancora democrazia la cui legittimità è imposta dalle armi? Sembrerebbe di sì: se è democrazia, quell’autorità si costituisce, appunto, democraticamente, sulla base di regole condivise (voto universale, libero e segreto, ripartizione dei poteri, diritti umani: queste cose lì, che per nostra fortuna in questa parte del mondo che conosciamo). Ma se abbiamo bisogno di armi – prima i bombardamenti dal cielo, poi i militari a terra – che tipo di democrazia è? È solo se le armi tacciono che le regole democratiche possono essere applicate; tuttavia, anche le pistole tacciono, ma se sono e rimangono ciò che queste regole si applicano, allora il carattere democratico sarà benedetto. O deve passare abbastanza tempo da dimenticare i bombardieri e le tute mimetiche. (E questa volta, aggiungo, dovrebbe essere ben spesa).
Dall’11 settembre 2001, l’Occidente ha messo in dubbio la possibilità di avviare processi di costruzione della nazione che permettano alle istituzioni democratiche di fiorire, in regioni del mondo che non solo mancano di “democrazia”, ma anche non hanno una “nazione”, che rende l’impresa quasi impossibile. Ma la revisione logica non è inutile, perché mostra la natura strutturale del problema (e quindi non specificamente afghano, o etnico, o musulmano, o altro): secondo quali regole può mai essere valida una norma? Oppure va da solo, ma è troppo facile; o vale per un’altra regola, ma poi il problema si ripresenta per questa nuova regola, oppure vale in base a qualcos’altro, che non è una regola. Questo “altro” è quello che il saggio Michel de Montaigne, alle origini della modernità – mentre anche noi europei avevamo qualche problema con la religione e i conflitti che essa innescava, ed eravamo alla ricerca di nuove legittimazioni più laiche – chiamava “il fondamento mistico dell’ autorità.’ E per “mistico” intendeva qualcosa di indicibile, piuttosto che impenetrabile. Se scavi, pensava lo scettico Montaigne, troverai anche nelle regole migliori un atto di forza, cioè qualcosa che, non potendo essere riconosciuto sotto queste regole, è (era) almeno extra-legale. Quindi, ha concluso, meglio non scavare. Meglio dimenticare. Meglio mettere una distanza sufficiente tra te e questa origine impura per non voler mai più tornare indietro.
Ma quanto tempo abbiamo? E vent’anni, allora: è abbastanza tempo? Non direi, tanto più che ci sono stati vent’anni di guerra, non certo anni di piena e completa pacificazione. In ogni caso, non c’è, non può esserci una sola risposta. Quindi è vero, Democracy non è certo esportabile come il Kentucky Fried Chicken, come se bastasse per avere un buon prezzo e garantire tempi di consegna rapidi, eppure sospetto che non c’è mai stata democrazia nella storia senza polli fritti (o simili, che sono preferiti). La democrazia non è pollo fritto, ma anche i polli fritti possono essere usati per dare tempo alla democrazia di prendere piede.
Il che suggerisce altre due considerazioni. Il primo sul pollo fritto. La cosa non mi fa impazzire, e sicuramente ci sono cose migliori, in termini di cibo, ma anche in termini di consolidamento dei processi democratici. Ma se per pollo fritto intendiamo una certa dieta (un certo uso del tempo libero, una certa propensione a piccoli momenti di trascurabile felicità), ebbene: credo che l’insieme delle distinzioni secolarizzanti tipiche della modernità occidentale – tra politica e religione, tra Stato e società civile, tra morale e diritto – ha a che fare anche con i polli fritti.
La seconda, più impegnativa considerazione riguarda il significato e lo scopo della missione afghana. Quello che non si può indicare, credo, nell’instaurazione di un regime democratico a Kabul: era piuttosto il mezzo del fine, il fine essendo la demolizione dei santuari del terrorismo di Al Qaeda. Prima ancora di esportare la democrazia, si trattava di non importare il terrorismo. Il ragionamento era questo: dove c’è democrazia e governo filo-occidentale si creano le migliori condizioni per svuotare le tasche dei fondamentalisti che alimentano la guerra contro il Satana americano. Segnalo solo incidentalmente che la congiunzione tra “democratico” e “filo-occidentale” ci riporta al problema di cui sopra, e minaccia sempre di minare l’accettabilità di certe norme politico-giuridiche agli occhi di quegli occidentali che non vogliono essere uno, piccolo o un punto. .
Tuttavia, quanto al ragionamento proposto, è chiaro che può dar luogo a cattive politiche – nei tempi, nei modi, nei mezzi, nel calcolo delle conseguenze: l’Afghanistan è una lezione bruciante al riguardo – ma io Non sono sicuro che siamo migliorati molto. L’interventismo democratico è una fusione discutibile e un po’ ipocrita di idealismo e realismo, ma è sempre meglio, penso all’idealismo sciocco, che al realismo cinico. Prendi Rawls, il filosofo politico americano più influente del ventesimo secolo, che nella sua tarda maturità si è dedicato a questioni di politica internazionale e di diritti dei popoli. Rawls ha inventato una classificazione tra paesi liberali (siamo noi), paesi decenti (non proprio liberali, ma per un motivo o per un altro assimilabile buono o cattivo: possiamo parlarci), paesi fuorilegge (più o meno: stati canaglia), paesi in cattive condizioni (cioè non sono democratici solo perché non possono farlo, non hanno risorse e infrastrutture sufficienti), infine paesi che non sono democratici, ma non si comportano troppo male (temo che le dittature “amichevoli” cadrebbero in una scatola simile). Ebbene: qualunque cosa pensi il filosofo, non puzza di imperialismo culturale lontano un miglio? Non è ancora una classificazione progettata ad Harvard? Non siamo noi che diamo i voti in pagella? La critica è certamente fondata, e non è difficile immaginare quali colpi duri un ministro degli Esteri se agisse nella classifica in mano, senza alcuna finezza diplomatica (o senza alcuna minaccia militare). Ma trovare un altro modo per far progredire le relazioni internazionali – o meglio: concettualizzare questi progressi, e dare ragioni per costruire un mondo più sicuro -: non mi sembra facile.
Forse si è illuso che l’Afghanistan potesse essere riclassificato da stato canaglia a società colpita: una società svantaggiata da condizioni di arretratezza culturale ed economica, alla quale aiutare. Non era abbastanza e, forse, non poteva bastare. Perché la risorsa più preziosa di tutte è il tempo, e il tempo per digerire un’invasione di una potenza straniera, a cui nessun filo ti lega, è decisamente più lungo dell’occupazione che il potere può mantenere sul territorio, mentre cerca di coprire il mistico. fondamento dell’autorità che stai cercando di costruire. Ma il problema, come si vede, non è logico, né etico-politico, ma storico. Dopo, ovviamente: la storia non siamo (solo) noi, ma questo non significa che non possiamo essere coinvolti. A volte ricevendo risposte dure, altre riuscendo a cambiare un po’ rotta.
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