Lontano dall’Afghanistan: la folla in aeroporto e l’eco degli spari

Quando arriviamo a Kabul è già buio. Le poche luci della capitale afgana che si intravedono dal C-130 mostrano chiaramente che molto è cambiato rispetto a poco più di due mesi fa, quando la terra degli aquiloni era ancora sotto il controllo della coalizione internazionale e la città brillava brillantemente. Solo l’aeroporto è illuminato. Ora gli unici rumori che si sentono sono i motori dei C-17 americani in partenza o in atterraggio, i CH47 e quelli in lontananza che sembrano sparare.

Scendiamo dall’aereo velocemente in fila, non prima di aver indossato un giubbotto antiproiettile e un casco, indispensabili per i rischi molto elevati. La discesa a Kabul con volo tattico è stata assicurata dai fucilieri dell’Aeronautica Militare, posizionati sul portellone del velivolo. Adesso non è il momento degli scherzi, perché intorno all’aeroporto si sta già dispiegando quella che è una guerra ancora poco conosciuta: quella del terrorismo internazionale contro il resto del mondo. Il nuovo emirato talebano dell’Afghanistan controlla di fatto quasi tutto il Paese. La verità è che questa è una corsa contro il tempo, visto che l’ultimo volo italiano è previsto in partenza tra domani e dopodomani e bisogna prendere quante più persone possibile. Molti non riusciranno a trovare la salvezza. Sono tutti ex collaboratori e interpreti che, negli ultimi vent’anni, hanno lavorato per il contingente italiano e con loro le loro famiglie. Donne e bambini, molti dei quali molto piccoli. Tutti tristi, con uno sguardo difficile da spiegare. Sembrano vuoti, apatici, rassegnati a lasciare la loro terra per un futuro in un Occidente che garantisca la loro sicurezza, ma la certezza che non torneranno mai più in Afghanistan. Sono tutte persone che hanno combattuto notte e giorno sotto il sole per poter entrare all’aeroporto di Kabul, senza cibo né acqua, con le unghie e con i denti, a rischio di essere uccise dai talebani, schiacciate dalla folla, travolte. . Si tratta di persone che hanno perso il proprio bagaglio e in alcuni casi la speranza di successo e, comunque, tutto ciò che avevano. In fila, i bambini in braccio, si dirigono verso il C-130. Si imbarcano uno ad uno nel carico militare e l’equipaggio li fa accomodare a terra, dove aspetteranno per otto lunghe ore al porto del Kuwait, da dove partiranno i KC-767 del 14° stormo per l’Italia.

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Quando possibile, donne e bambini vengono sistemati sui sedili laterali. L’esercito dà loro acqua e biscotti. Mangeranno solo alla seconda tappa, poiché la prima è prevista a Islamabad, in Pakistan, per fare rifornimento.

Andiamo. Il decollo avviene ad alta velocità, dato il rischio di lancio di razzi o missili a corto raggio da parte dei talebani. L’aereo è dotato di sistemi di difesa passiva, razzi flair che si attivano automaticamente se i radar intercettano l’arrivo di un’offensiva.

“Stanco? – ci racconta un militare della 46a Brigata Aerea – un po’, ma l’idea di salvare vite umane ci dà la forza per continuare. Devo dire che guardando queste persone provo molta tristezza, perché è chiaro che nonostante la gioia di essere al sicuro non avrebbero mai voluto lasciare la loro terra. Molti bambini piangono, ma noi stiamo cercando di farli sorridere”.

L’atmosfera è surreale. Soldati armati fino ai denti ovunque. I fucilieri continuano a difendere il perimetro intorno all’aereo. Tutt’intorno soldati internazionali, anche italiani e forze speciali.

Coordinato dal Covi (Direttore Operativo Congiunto), guidato dal Generale Luciano Portolano, responsabile di tutte le operazioni da parte italiana, il militare lavora senza sosta. Non dormiamo qui da giorni e non dormiremo finché non torniamo. I diplomatici e gli uomini e le donne in uniforme che restano a Kabul non sono interessati ai titoli dei giornali. “L’importante per noi è solo salvare vite”, dicono i militari ancora in Afghanistan.

Resta attiva la sala operativa italiana, che coordina le attività di imbarco e sbarco del personale e degli afgani.

Sono tutti in prima linea nel tentativo di compiere il miracolo. Sono persone che lavorano per uno scopo più alto: portare in Italia persone che altrimenti finirebbero nelle mani dei talebani e verrebbero uccise. In un Paese che ci ha tolto 53 soldati e un civile, c’è ancora poco da dare. Gli ultimi colpi di coda di una missione ventennale. È già ora di andare.

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