Il Partito Democratico e un malinteso senso di responsabilità

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Cosa accadrà domani sera, quando si aprirà il ballottaggio referendario? Proviamo a immaginare che prevalga il “no” alla coppa dei parlamentari. Il voto riporterebbe il decennio dell’antipolitica nei granai della storia, dimostrando che la maggioranza dell’opinione pubblica sta tornando a confidare nell’istituzione che incarna la democrazia rappresentativa: la delegazione. La contemporanea sconfitta politica dei Cinquestelle alle elezioni regionali certificerebbe la crisi strutturale del Movimento e il suo declino politico.

Immaginate invece l’ipotesi opposta, ritenuta molto più probabile dai sondaggi: che nelle urne prevalga il “sì”. Il referendum rivitalizzerebbe la dirigenza a cinque stelle, testimoniando che la maggioranza degli italiani si identifica ancora con i suoi slogan. In altre parole, l’antipolitica non è tornata nemmeno nella spinta che la pandemia ha scatenato sul Paese, ma sopravvive come un corpo dannoso capace di tenere in ostaggio la democrazia e, in una certa misura. modo, per renderlo precario. Luigi Di Maio avrebbe rivendicato il risultato, usandolo per far pendere la bilancia del governo a proprio vantaggio. Quanto al Pd, che ha votato tre volte “no” alla coppa dei parlamentari e un quarto “sì”, si vergognerebbe del prezzo insopportabile pagato all’alleanza con i Cinquestelle. Chi conosce la fisiologia morale e ideologica del partito di Zingaretti sa che questo sentimento, unito alla probabile sconfitta delle Regionali, sarebbe funzionale a un cambio di leadership.

Gli scenari qui presentati non sono neutri. E si prestano ad alcune obiezioni. Li ha formulati una settimana fa Paolo Mieli, rispondendo a Roberto Saviano che, in una intervista alla stampa, aveva liquidato come “vapore acqueo“L’intera classe dirigente del Partito Democratico. Per l’ex caporedattore del Corriere della Sera, questi toni hanno giustamente ricordato il discorso palese di Nanni Moretti, pronunciato vent’anni prima contro Fassino e Rutelli. Il risultato, oggi come ieri, di una cultura politica che manca di realismo e non capisce cosa sia un compromesso. Perché, ha ricordato Mieli Saviano, non si tiene conto del fatto che il Pd è il perdente delle elezioni politiche del 2018, ed è al governo “solo in virtù di una manovra tattica portata avanti in estate. 2019 “. Dunque “non può fare quello che vuole in sala controllo”, e non può, ad esempio, “cambiare le leggi sulla Libia e sui migranti per le quali si è anche impegnato nei confronti dei suoi elettori. “.

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L’ex caporedattore del Corriere della Sera non ha detto esplicitamente che, per le stesse ragioni tattiche, il Pd dovrebbe appoggiare il “sì” al referendum, in difesa dell’alleanza di governo. Ma se l’obiettivo è mantenere vivo un compromesso, di cui il taglio dei parlamentari è una condizione essenziale, è lecito pensare che questo voto sia un sacrificio da pagare. Quello che Mieli non si è chiesto è se l’abrogazione dei decreti sicurezza di Salvini sia una condizione essenziale anche per il Pd, visti i principi che governano il rapporto con la sua base elettorale. E se non vale la pena fare il punto su questo compromesso, vale a dire un confronto tra le concessioni tattiche e le rinunce strategiche fatte finora.

Questo budget è spaventoso. Perché temiamo che ogni pregiudizio posto dal Pd su Cinquestelle metta a repentaglio le sorti del governo. Ma è un ragionamento che nasconde una subordinazione spaventosa e che manca di un eccesso di prudenza. Il governo Conte ha tre solide radici: l’attaccamento ai seggi di una rappresentanza parlamentare a cinque stelle che non avrebbe altra possibilità di essere rieletta; l’obiettivo di bloccare la strada di Salvini, almeno fino all’elezione del nuovo capo dello Stato; la gestione di quello che la politica italiana considera il tesoro europeo, da distribuire in cambio di azioni consensuali. Se una sconfitta del Pd nelle Regionali non basta per rovesciare Conte, lo stesso va detto di un’ipotetica sconfitta delle Cinquestelle al referendum. In un caso o nell’altro, l’alleanza incompiuta cercherà con tutti i mezzi di mantenere se stessa con lo scotch.

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La realtà è che il Pd è prigioniero di un malinteso senso di responsabilità, per il quale si è assunto il compito di rieducare, e in un certo senso normalizzare, il suo alleato ribelle. Ma il favoritismo si è rivelato infruttuoso. Come in ogni dipendenza patologica, è il soggetto che si sente più maturo per pagare il prezzo più alto. Il divario culturale istituzionale spinse i Democratici a convergere sul massimalismo ideologico e sul populismo delle Cinquestelle, che erano anche tendenze latenti nella loro identità. Così il riformismo si è ritrovato in soffitta. Zingaretti rinunciò a cambiare la distribuzione e le misure di sicurezza della stagione gialloverde, e dovette sostenere le misure giustizialiste, stataliste e antipolitiche della stagione giallorossa. Il reddito di cittadinanza è diventato un vangelo, anche se apocrifo a prova di bancarotta. La quota 100 e la sicurezza decretano due tabù inattaccabili. La ricetta sine morire un rospo da ingoiare con un sorriso sulle labbra, promettendo di accelerare il processo, solo per dimenticarlo in seguito. La revoca abortita delle concessioni autostradali è un pasticcio da ignorare. L’atlantismo è un confine esposto alle uscite di un alleato che flirta con Maduro e Xi Jinping, e che si astiene dalle sanzioni contro la Russia come la Lega. La perdita della Libia è un tributo all’irrilevanza della politica mediterranea. Lo ius soli è un sogno di giovinezza svanita. E, infine, i fondi del Mes un sacrificio politico da sacrificare al Dio dei pregiudizi.

Questo è il bilancio che il Pd non vuole fare. E chi si nasconde dunque dietro una nuova retorica europeista. Anche se il Fondo di recupero è stato l’unico vero guadagno dell’alleanza di governo con le Cinquestelle, cioè se è stato grazie a Zingaretti e ai suoi compagni, o meglio un’occasione fortuita dello stretto sentiero in cui il L’Europa ha ritrovato se stessa, la logica distributiva con cui il governo si appresta a gestirla, la trasformerà presto nei propri obiettivi più clamorosi. Non solo perché, come hanno scritto Tito Boeri e Sergio Rizzo a proposito della Repubblica, il piano per utilizzare i 208 miliardi a Bruxelles è una giustapposizione di progetti di diversi ministeri, spesso duplicati per mancanza di visione e coordinamento. Ma perché l’idea di utilizzare un tale prestito una tantum per finanziare bonus e agevolazioni fiscali è una manovra irresponsabile, che sposta il debito tra le generazioni, lo moltiplica.

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Ansioso di nascondere la percezione del fallimento dietro una narrazione di per sé sempre meno credibile, il Partito Democratico ha rinunciato al suo coraggio di fronte a un referendum che ha un enorme valore simbolico. Perché può chiudere una stagione lunga e buia, che ha umiliato la democrazia italiana al di là dei propri svantaggi, o meglio duplicarla in una coazione a ripetere. E di fronte al probabile esito di un voto che rischia di dare vita alle peggiori trombe della nostra storia repubblicana, le divisioni dei Democratici sul “sì” suonano come una sensazione di vergogna. Che da domani potrebbe essere un disagio per molti.

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